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RICORDI
La storia di Rita

Rita Visonà sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


Rita Visonà

Il mio desiderio è quello di far conoscere la mia storia.
La mia bellissima famiglia era composta da papà, mamma e due fratelli. Durante la seconda gerra mondiale abbiamo vissuto con molta sofferenza, angoscia e terrore. Quello che mi terrorizzava di più in questo periodo erano le perquisizioni che i fascisti facevamo a noi contadini: cercavano, oltre il cibo, anche eventuali partigiani nascosti per non essere fucilati.
Una notte i fascisti entrarono in casa della mia nonna paterna per cercare il sale nero, ma non lo trovarono perché era stato nascosto nel fienile. Il cosiddetto sale nero era di colore scuro perché, non essendo puro, doveva essere bollito prima di essere utilizzato nei cibi. Allora portarono fuori dalla casa il mio papà e i cinque zii che abitavano vicino a noi, mettendoli davanti al muro e minacciando di ucciderli se non svelavano il nascondiglio. Noi bambine e bambini con le mamme vivevamo la vicenda con terrore e angoscia.
Alla fine cedettero; per non essere uccisi svelarono dove era nascosto il sale nero. Oltre alle altre cose che avevamo nascosto, purtroppo vennero trovati nel fienile anche il legno e il cuoio che servivano per fare gli zoccoli a me e ai miei due fratelli.
Non importava se dovevamo camminare a piedi nudi, perché la vita del nostro papà e dei nostri zii era salva: questa fu la nostra unica consolazione.
Il mio papà lavorava in miniera e tutte le volte che usciva per le pause del mezzogiorno o alla sera era sempre irriconoscibile perché il suo viso era sporco di polvere di carbone. Un giorno per portargli il pranzo a piedi impiegai due ore di cammino per raggiungere la miniera. Non appena giunta cercai in quella moltitudine di musi neri il mio papà, senza trovarlo subito. Allora chiesi se qualcuno lo aveva visto. Dopo un po' si avvicinò a me un uomo con il volto tutto nero il quale mi disse: “Sono io il tuo papà!” Rimasi molto colpita da questo fatto perché non ero stata capace di riconoscerlo.
Nel 1944 una notte arrivarono dei partigiani. Mia nonna mi chiese di scendere in cucina perché dovevo aiutarla a rompere le uova che loro avevano portato con il pane. Appena vidi questo gruppo dì partigiani mi spaventai perché non ne avevo mai visti così tanti. Poi però la paura mi passò. Dopo aver rotto le uova (erano 300) che la mia nonna cucinò, le mangiai assieme a loro.
Mia nonna paterna aveva un negozio di alimentari con bar. L'acquisto degli alimenti avveniva con le tessere: c'erano attaccati dei bollini che si utilizzavano assieme al denaro. Purtroppo non era facile trovare alimenti da vendere, pertanto mia nonna si arrangiava come poteva.
I partigiani nelle fattorie pagavano sempre quando prendevano da mangiare, mentre i fascisti rubavano qualsiasi cosa che li interessava, anche solo un pezzo di pane; cercavano di tutto, dai vestiti di mio papà, che non ne aveva, ai pochi soldi che avevamo. Se non gli davamo le cose che ci chiedevano ci ammazzavano tutti.
A scuola come merenda mangiavo l'erba che raccoglievo nei campi: con 1a fame che avevo mi dicevo: “Come è buona 1'erba!”. A scuola la mamma di una mia compagna di classe mi dava di nascosto una fetta di pane in più (erano piccole fettine). Una la mangiavo e l'altra la dividevo in due e la portavo a casa ai miei fratelli.
Il 4 luglio del 1944, nel pomeriggio alle 4, io e il mio papà stavamo raccogliendo i fagioli dalle piante (ne avevamo raccolti circa due chili), quando sentimmo degli spari. Ci accorgemmo che dietro la casa c'erano due partigiani che si nascondevano. Nella strada davanti a casa, a cento metri, si fermò una macchina sopra la quale c'erano due fascisti che facevano i rastrellamenti.
I partigiani si spostarono dall'altra parte della strada, nascosti dalle case. Io e il mio papà ci nascondemmo in un fienile per vedere cosa succedeva. I fascisti dietro la macchina per un'ora continuarono a sparare ai partigiani, poi girarono la macchina e scesero giù in paese. Io e il mio papà eravamo terrorizzati. Alla sera c'era il coprifuoco e c'era un aereo che si chiamava Pippo che continuava volare sopra di noi. Mandavano giù i razzi per poterci individuare. Anche i fascisti dal paese mandavano i razzi in cielo per cercare i partigiani: qualsiasi persona sospetta veniva ammazzata.
Lo stesso giorno il mio papà faceva la notte di turno in miniera; appena uscito scappò in montagna con i partigiani. Anche io, la mia mamma e i miei fratelli scappammo in montagna, portando solamente quello che avevamo addosso. Pioveva a dirotto noi ci nascondemmo nel bosco, poi all'una di notte andammo da parenti. Alle 4 del mattino scappammo via ancora, pioveva sempre, tutti bagnati fradici si correva per scappare più lontano possibile. Alle 5 del mattino aveva smesso di piovere e da lontano vedemmo la nostra casa che stava bruciando. Andammo qualche giorno dagli zii materni, poi tornammo a casa e trovammo solo le mura in piedi e niente altro.
Nella frazione in cui abitavamo era rimasto solo un fienile coperto dove si dormiva in ventisette. La mia mamma cucinava con una pentola grande e un paiolo appeso con una catena alla inferriata di una finestra di una casa bruciata. Mi ricordo che un mezzogiorno, mentre stavo girando la polenta appena infarinata, cominciò nevicare. La mia mamma allora la dovette servire cruda per sfamarci.
Poi cominciò l'inverno. Una notte la neve era alta oltre due metri.
Il mattino ci svegliammo tutti e ventisette nel fienile con dieci centimetri di neve sopra le coperte, solo il fienile era coperto, il resto era tutto aperto.
Io e la mia famiglia ci sistemammo come si poteva in una stalla vuota, la pulimmo bene e ricavammo una camera e una cucina.
Nel febbraio del '45 il Comune consegnò al parroco del paese coperte, tavoli e letti. In quell'inverno il mio papà costruì due letti matrimoniali e le sedie. Il parroco ci consegnò un tavolo, tre coperte militari e un letto a un piazza dove dormivo io.
Appena finita la guerra io e mio fratello andavamo in cerca di stracci e ferro vecchio, compravamo e vendevamo per cercare di guadagnare qualcosa (io avevo dodici anni!). Mi ricordo che mi chiamavano “la strascera”. Che vergogna che avevo!
Una famiglia mi aveva chiesto “vuoi venire da noi a fare la serva?” Risposi di sì. La famiglia era composta da una donna anziana con il marito e tre figli, una nuora e due nipotine piccole. I tre figli facevano i mobilieri e abitavano in una piccola fattoria.
Presso questa famiglia ho cominciato il mio lavoro come domestica. Cominciavo al mattino alle cinque fino a mezzanotte: lavavo tutto a mano, le lenzuola matrimoniali nel mastello, poi le mettevo in due cesti grandi e in spalla le portavo alla fontana per risciacquarle. Tante volte la biancheria si ghiacciava, poi alla fontana trovavo una lastra di giaccio e la dovevo rompere per risciacquare la biancheria.
Il mio primo lavoro alle cinque del mattino era di aiutare la signora anziana a mungere le mucche. Ricavavamo dalla mungitura un totale di due secchi di latte, 30 litri, che portavo in latteria.
Una sera mungevo una delle mucche, ero seduta sullo sgabellino con davanti alle ginocchia il secchio con circa dieci litri di latte; tutto ad un tratto la mucca mi ha dato una pedata. Il secchio del latte è finito in mezzo alla stalla e io vicino alla mangiatoia; per fortuna non mi sono fatta male perché c'era tanta paglia. Alla sera poi ho dovuto portare il latte in latteria.
Durante il giorno dovevo fare tutte le faccende di casa, lavorare la terra e finivo verso mezzanotte o l'una, per guadagnare, nel '46, un mensile di 2000 lire. Ero fortunata perché avevo la possibilità di mangiare assieme ai padroni.

Rita Visonà


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 31 maggio 2003